12 Apr 2020

Codice Appalti e Contenzioso Amministrativo – Solo Molte Chiacchiere – Post 1

Post dell’Amministratore (12/04/2020)

L’analisi di Casi Reali – Poste Italiane SpA

Recentemente mi è capitato di partecipare ad una interessante tavola rotonda dal titolo “Il Sistema Economico Italiano Tra Autonomia Differenziata e Centralismo Burocratico” tenutasi nella suggestiva cornice della Biblioteca Angelica a Roma, con la partecipazione di rappresentanti del mondo della politica e delle istituzioni e di alcuni tra i più competenti tecnici della materia.

Come spesso accade quando si parla di efficienza ed efficacia, e quindi anche di tempi dell’azione amministrativa, sia essa centrale o decentrata, ci si ritrova a parlare, molto spesso a sproposito e in termini del tutto generici ove non distorti e/o pretestuosi, del codice degli appalti e del contenzioso amministrativo, quasi che si tratti dei due grandi mali all’origine delle (troppo) diffuse incapacità o addirittura impossibilità di gestire la cosa pubblica.

Certo, molti manager pubblici troverebbero più agevole o producente (soprattutto per loro) spendere capitali pubblici a loro piacimento, senza essere tenuti al rispetto di norme e prescrizioni la cui attuale onerosità, a mio avviso, non è peraltro proporzionata al livello di corruzione e collusione registrati nel nostro paese.

Anche in quella occasione, immancabilmente, in un suo video messaggio, addirittura il Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie identificava in un sistema imprenditoriale litigioso, la causa principale per la quale circa il 70% degli appalti pubblici finisce e in tribunale.

Niente di più lontano dalla realtà.

Nella realtà dei fatti molte aziende rinunciano ad instaurare contenziosi amministrativi per via dei costi, dei tempi, delle incertezze e dei rischi ad essi connessi, lasciandosi privare illegittimamente o talvolta addirittura illecitamente di importanti opportunità di business.

Purtroppo, in qualità di imprenditore, nel corso degli ultimi tre anni, mi sono visto costretto ad approfondire non poco le mie competenze di diritto amministrativo, proprio a causa di contenziosi inevitabilmente instaurati in difesa degli interessi dalla mia azienda, la quale, secondo una odiosa prassi molto italiana che non vi sarà difficile qualificare, è stata, appunto, etichettata come litigiosa dall’amministrazione resistente, con tutte le conseguenze che ne sono poi derivate in termini di identificazione di possibili partner per la partecipazione alle gare di appalto.

Pertanto, non posso esimermi dal reagire a simili semplicistici quanto pericolosi approcci tentando di fare chiarezza allo scopo di dare un contributo chiarificatore portando ad esempio casi reali.

In base all’esperienza e alle competenze acquisite, dopo aver letto decine di recenti sentenze delle corti amministrative incentrate su molti e diversi motivi oltre le linee guida ANAC e le direttive europee dalle quali tutto ha origine, posso affermare e, ciò che è più importante, dimostrare, appunto attraverso casi reali, che larga parte della discussione sul tema degli appalti e del contenzioso amministrativo è del tutto fuorviante e, ciò che è più grave, strumentale o pretestuoso.

Basti pensare che, con il cosiddetto “sblocca cantieri” si è riusciti a far credere che, per velocizzare gli appalti, la maggior parte dei quali è ormai aggiudicato con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che prevede tutt’ora un peso minimo del 70% per la componente tecnica dell’offerta e un peso massimo (solo virtuale) del 30% per quella economica (con elevati livelli di discrezionalità del giudizio da parte delle commissioni ma quindi anche con elevati rischi di collusione e corruzione), si rendeva necessario sospendere, “in via sperimentale”, l’unica disposizione atta a mitigare i rischi di tale sistema, ovvero la nomina dei commissari di gara dall’apposito albo istituito presso l’ANAC.

D’altronde, soprattutto laddove la materia è complessa e si ha il dominio dell’informazione, che deve necessariamente essere breve e semplice, fino a somigliare sempre più a slogan, è facile giustificare qualunque misura con necessità apparentemente riconducibili all’interesse pubblico.

Beh… in un paese ad altissimo tasso di corruzione e collusioni come il nostro, non era difficile prevedere che tutta questa “sperimentazione”, unita a tanta discrezionalità delle commissioni di gara, avrebbero fatto lievitare il contenzioso amministrativo così come il costo dei contratti pubblici, tanto che si è tentato di correre ai ripari con il D.L n° 32/2019 eliminando la tassatività delle suddette soglie ma tale modifica non è stata convertita in legge.

Il codice degli appalti è certamente migliorabile e, peraltro, molta della sua complessità non si ritrova nella direttiva europea da cui deriva, tanto che alla UE l’interpretazione nostrana non è mai piaciuta un gran che.

Anche il processo amministrativo non è esente da problemi, ma, considerati il costo, i tempi e spesso gli esiti, soprattutto in primo grado, dei contenziosi amministrativi è davvero difficile credere che questi vengano instaurati su basi irrazionali, emozionali o per litigiosità.

Il vero problema è l’utilizzo che le amministrazioni fanno della rilevante discrezionalità loro riconosciuta dalle norme e, nello specifico, proprio dal codice appalti, il quale presuppone in capo alle stesse assoluta e assai poco condizionata buona fede, nonché prevalente attenzione all’interesse pubblico.

Tuttavia, la storia ci insegna che in materie che, come gli appalti, incidono fortemente su ingenti interessi individuali, la buona fede è spesso sacrificata e l’interesse pubblico ignorato o come minimo ridefinito in modi originali e quantomeno “creativi” per non dire: del tutto soggettivi.

Per tentare di far sì che non ci si faccia abbindolare da tesi e argomenti speciosi, attraverso i quali in realtà si mira solo a perseguire biechi interessi personali, di gruppo o di fazione e ci si possa confrontare piuttosto con la sconfortante realtà dei fatti, in questo primo di una serie post vi propongo l’analisi di casi reali cercando di esercitare la massima capacità di sintesi.

I casi riguardano tutti Poste Italiane, che è una società per azioni il cui capitale è posseduto per c.ca il 30% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e per il 35% da Cassa Depositi e Prestiti (a sua volta partecipata da numerose partecipate e, a sua volta, da Poste Italiane al 35%).

Poste è soggetta al rispetto del codice degli appalti, anche se, specialmente l’attuale management, ovviamente di nomina pubblica, ha recentemente tentato in più occasioni di svincolarsi da tale “fastidioso limite” (De Michele, 2019), ed è soggetta alla vigilanza della Corte dei Conti.

Inoltre, Poste ha voluto siglare accordi bilaterali di collaborazione con la Guardia di Finanza (Poste Italiane & Guardia di Finanza, 2017) e con l’ANAC (ANAC & Poste Italiane, 2016), ai quali ha dato notevole risonanza con evidenti finalità in termini di ricadute sul piano reputazionale, in tema di vigilanza in materia di pubblici appalti.

Nel 2012 Poste Italiane, secondo quanto già previsto dal D.Lgs. 163/2006, si è dotata di un sistema di qualificazione, comunemente detto Albo dei Fornitori.

I sistemi di qualificazione, che sono in effetti dei sistemi di pre-qualificazione, sono stati concepiti dal legislatore allo scopo di velocizzare le procedure di gara attraverso la previa conoscenza degli operatori economici e non certo come strumenti per limitare la concorrenza.

Nonostante la normativa in materia di appalti pubblici, anche nei cosiddetti settori speciali, quale il servizio postale, sia andata progressivamente e inesorabilmente incontro ad una apertura della concorrenza e a favore della partecipazione agli appalti pubblici da parte delle piccole e micro imprese, la qualificazione in detto Albo era (ed è) già resa particolarmente onerosa dalla parcellizzazione dello stesso in una pletora di classi di specializzazione molto specifiche per ciascuna categoria merceologica, per le quali erano (e sono tutt’oggi) previste anche soglie di fatturato specifico riferito all’ultimo triennio assolutamente rilevanti.

Tale parcellizzazione della categoria ICT in classi di specializzazione molto verticali ha l’effetto di frammentare il fatturato degli operatori atteso che il fatturato specifico utilizzato per la qualificazione in una classe non può essere utilizzato ai fini della qualificazione in un’altra.

Per la qualificazione nella classe Applicazioni Postali, ad esempio, il regolamento di detto albo richiedeva di aver conseguito un fatturato specifico, ovvero relativo alla realizzazione di applicazioni postali, pari a 3 milioni di euro nel triennio precedente alla presentazione dell’istanza di qualificazione.

Si deve sottolineare che, da sempre, il regolamento dell’Albo dei Fornitori di Poste Italiane prevede che tutte le aziende che intendano partecipare a procedure selettive con qualsivoglia ruolo, mandante o mandataria, siano qualificate nella classe di riferimento della specifica procedura e quindi soddisfino il relativo requisito di fatturato specifico.

Ciò significa che, ai sensi dell’originario regolamento dell’albo, ad un’azienda che volesse partecipare come mandante, con una quota del 10%, ad una procedura selettiva relativa, ad esempio, ad un accordo quadro triennale per Applicazioni Postali del valore di 10 milioni di euro, sarebbe comuque richiesto un fatturato specifico pari ad euro 3 milioni (requisito di qualificazione in albo) contro 1 milione di quota di esecuzione.

Quindi, la mera pre-qualificazione prevedeva già un requisito minimo di fatturato specifico che corrisponde a quello richiesto ad una impresa mandante nel caso di procedure del valore di 30 milioni di Euro.

Addirittura, Poste Italiane prevedeva che un’azienda che volesse essere destinataria di subappalti nell’ambito di procedure selettive dovesse anch’essa essere iscritta almeno in una classe dell’albo.

Tale limitazione non è ad oggi esplicitata nel regolamento dell’albo ma può essere introdotta nelle specifiche discipline di gara.

Inoltre, secondo un’interpretazione del tutto “soggettiva” della facoltà, eccezionalmente riconosciuta alle amministrazioni operanti nei settori speciali, di ridurre il numero dei concorrenti (Art. 91, D.Lgs. 50), il regolamento dell’albo di Poste Italiane, prevede che le aziende invitate siano individuate tra quelle qualificate dotate di un fatturato specifico calcolato sulla base di un multiplo dell’importo a base d’asta via via decrescente, fino al raggiungimento di un numero minimo di 5 concorrenti.

Tale multiplo era inizialmente posto a 2,5 nel vecchio regolamento ed è stato ridotto a 2 nel nuovo a causa delle esplicite limitazioni poste dal nuovo codice a simili troppo spesso abusati sbarramenti su fatturato.

All’atto pratico, ciò significa che posto pari ad X l’importo a base d’asta della specifica procedura selettiva, se vi fossero almeno 5 aziende dotate di un fatturato specifico pari o superiore a 2 volte X solo queste, e non altre con fatturati inferiori, sarebbero invitate, altrimenti si verificherebbe il numero di concorrenti risultanti dall’adozione di un moltiplicatore pari a 1,5 o via via inferiore fino a raggiungere un numero di candidati almeno pari a 5 (numero minimo prescritto dalla norma).

È facile notare come una simile prescrizione risulti in aperto contrasto con taluni i principi normativi vigenti, non solo con quello del favor partecipationis ma anche la ratio dello stesso articolo 91, in quanto si fa sistematica applicazione di una facoltà (di riduzione del numero di concorrenti) riconosciuta in via eccezionale (e il ricorso alla quale dovrebbe essere caso per caso ben motivato), mirando a ridurre apriori il numero di concorrenti attraverso il ricorso (apriori) al più alto fatturato possibile che consenta l’ottenimento del numero minimo di concorrenti previsto dalla norma.

Attraverso il ricorso all’istituto dell’avvalimento la Consulenze Progetti Sviluppo (CPS), da sempre impegnata nello sviluppo di applicazioni postali, riusciva a qualificarsi nella specifica classe dell’albo dei fornitori e negli anni successivi si aggiudicava con tre differenti RTI altrettante procedure ristrette, ovvero procedure con selezione dei partecipanti da albo.

Nel febbraio 2016 Poste Italiane, raddoppiava la soglia di fatturato specifico richiesta ai fini della qualificazione nella classe Applicazioni Postali portandola a 6 milioni nel triennio, richiedendo ai soggetti già qualificati di “aggiornare” il proprio questionario di qualificazione onde mantenere la stessa.

Siccome già la precedente soglia di 3 milioni non ci sembrava in linea con la normativa vigente, soprattutto, ma non solo, con riferimento ai ruoli di mandante o subappaltatore, nell’impossibilità di raggiungere il nuovo requisito richiesto, dopo aver sottoposto all’amministrazione un’istanza di revisione in autotutela rimasta inascoltata, il 29 settembre del 2016 presentavamo ricorso presso il TAR del Lazio avverso la sopravvenuta esclusione (sospensione) dalla classe Applicazioni Postali dell’Albo dei Fornitori di Poste Italiane insieme ad una istanza di sospensione cautelare del provvedimento.

Poste si costituiva in giudizio e, nella propria memoria difensiva dedicava ampio spazio alla prospettazione di presunti vizi di inammissibilità del nostro ricorso, più di quanto non ne dedicasse a giustificare nel merito le proprie scelte.

Il TAR del Lazio respingeva la nostra istanza cautelare prospettando, già in quella sede, l’inammissibilità del ricorso e l’infondatezza dei motivi.

Ancora convinti delle nostre ragioni, facevamo appello al Consiglio di Stato per l’annullamento della sfavorevole Ordinanza Cautelare del TAR.

Il Consiglio di Stato annullava l’ordinanza del TAR e sospendeva il provvedimento di sospensione dall’albo della CPS sollecitando la fissazione da parte del TAR dell’udienza di merito, indicando tra l’altro che, a suo avviso, la questione di inammissibilità risultava meritevole di ulteriori approfondimenti.

A seguito dell’udienza di merito il TAR del Lazio confermava quanto già prospettato nella propria ordinanza cautelare dichiarando con la sentenza n° 11306/2017 il ricorso della CPS inammissibile e, nonostante ciò, diffondendosi nel merito a supporto della totale infondatezza dei motivi richiamando, come già fatto da Poste, sentenze che si perdevano nella notte dei tempi.

Non uno ma ben quattro differenti avvocati amministrativisti e un magistrato, letta la sentenza del TAR del Lazio, mi invitavano a proporre con fiducia appello presso il Consiglio di Stato dichiarandosi certi della fondatezza dei motivi di ricorso e, soprattutto, dell’ammissibilità dello stesso.

Fermamente convinti delle nostre ragioni presentammo appello al Consiglio di Stato unitamente ad istanza di sospensione degli effetti della sentenza. L’istanza cautelare fu subito accolta e fu disposta l’udienza di merito.

Dopo qualche mese, con la storica (in quanto prima in materia di requisiti riferiti a sistemi di pre-qualificazione) sentenza n° 3444/2018 il Consiglio di Stato dichiarava il nostro ricorso ammissibile e fondato definitivamente annullando la sentenza a noi avversa del TAR del Lazio e tutti i provvedimenti impugnati, quindi disponendo il ripristino della soglia di qualificazione per la classe Applicazioni Postali ad € 3’000’000.

Con una sentenza articolata e dettagliatamente motivata il Consiglio di Stato riconosceva dunque i chiari limiti posti dal regolamento dell’albo di Poste Italiane all’apertura del mercato, e quindi alla concorrenza, nonché alla inclusione delle piccole imprese nel mercato degli appalti pubblici.

Tuttavia, il collegio, una volta raggiunta la sostanziale corrispondenza tra il richiesto e il pronunciato, probabilmente certo della futura diligenza di Poste nel ripristinare la legalità del proprio regolamento, non si pronunciava esplicitamente su tutti i motivi di ricorso ritenendoli riassorbiti dalle disposizioni contenute nella sentenza.

A quel punto, ad ogni cittadino di buon senso, sarebbe parso evidente che i principi richiamati dalla sentenza del CdS avrebbero dovuto applicarsi a tutte le classi dell’albo dei fornitori e che l’amministrazione, tenuta anche in senso proattivo all’osservanza dei dettami normativi, avrebbe dovuto operare una sostanziale revisione del proprio sistema di pre-qualificazione.

Niente di tutto ciò! Come dicono gli inglesi: “bad habits die hard”!

Nel luglio del 2019 diveniva operativo un nuovo albo dei fornitori di Poste Italiane che vedeva qualche modifica delle classi merceologiche e, incredibilmente, reiterava la già censurata soglia di qualificazione di 6’000’000 per la classe rinominata “Applicazioni di Logistica e Postali”.

Ma non basta.

Nonostante la principale tesi difensiva di merito di Poste nell’ambito del precedente contenzioso fosse stata incentrata sulla possibilità delle piccole aziende di accedere all’albo facendo ricorso all’istituto dell’avvalimento (peraltro già utilizzato per quanto possibile dalla CPS), il regolamento del nuovo albo dei fornitori di Poste, in chiaro e diretto contrasto con precise disposizioni di origine comunitaria prescrive che: “L’Operatore Economico, singolo o consorziato, come indicato al paragrafo “SOGGETTI AMMESSI” del Disciplinare, può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti inerenti alle capacità economiche e finanziarie o alle capacità tecniche e professionali, avvalendosi della capacità di un altro soggetto, purché appartenente allo stesso gruppo societario della società avvalente”, con ciò limitando dunque la possibilità di ricorso all’avvalimento alla sola ipotesi di avvalimenti infragruppo, ovvero tra aziende appartenenti allo stesso gruppo.

Ciò, come anticipato, in evidente contrasto con quanto disposto dall’art. 89 del D.lgs. 50 che disciplina il ricorso all’istituto dell’avvalimento e che recita: “L’operatore economico, singolo o in raggruppamento di cui all’articolo 45, per un determinato appalto, può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale di cui all’articolo 83, comma 1, lettere b) e c), necessari per partecipare ad una procedura di gara, e, in ogni caso, con esclusione dei requisiti di cui all’articolo 80, avvalendosi delle capacità di altri soggetti, anche partecipanti al raggruppamento, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi)

Peraltro, risulta evidente che, ancora una volta, limitare l’avvalimento all’infragruppo va in direzione del tutto opposta all’obiettivo di inclusione negli appalti pubblici delle piccole e micro imprese della normativa comunitaria.

A tale proposito vale la pena di ricordare che la normativa comunitaria definisce micro-impresa un’azienda con un fatturato annuo globale inferiore a € 2’000’000 e piccola impresa una con un fatturato annuo globale compreso tra € 2’000’000 e € 10’000’000 (Commissione delle Comunità Europee, 2003).

Tutto quanto precede appare del tutto singolare, specie se si considera che Poste Italiane è dotata di un ufficio legale formato da specialisti assai competenti in materia di appalti e si avvale di autorevoli consulenti legali.

Considerando il peso e l’innovatività della pronuncia del Consiglio di Stato e il fatto che, nonostante i rilevanti profili di illegittimità dei suoi bandi e regolamenti, per motivi che non approfondiamo in questa sede, Poste Italiane affronta un numero estremamente limitato di ricorsi amministrativi in materia di appalti e, almeno in primo grado, non è quasi mai soccombente, la presenza nel nuovo albo dei fornitori di Poste di vecchie e nuove palesi incongruenze con il dettato normativo e giurisdizionale, sembra dare adito anche ad un’interpretazione malpensante, secondo cui l’amministrazione, piuttosto che adoperarsi per ristabilire immediatamente la legalità del proprio operato in qualità di stazione appaltante, volesse comunicare agli operatori economici che, anche laddove intendessero impugnare le sue decisioni, ogni eventuale successo potrebbe comunque rivelarsi vano o, quanto meno, nel complesso economicamente svantaggioso..

Insomma, sembra potersi intendere che anche laddove un concorrente sia talmente temerario da presentare ricorso contro Poste Italiane, un eventuale successo, comunque costoso e che richiederebbe tempi lunghi, sarebbe in ogni caso inutile in quanto l’amministrazione è comunque determinata a difendere il proprio operato ad ogni costo, quasi potesse presumere in termini assoluti la sua legittimità.

Ancora una volta, sostenendo spese legali e processuali tutt’altro che irrilevanti, tra l’altro a fronte di condanne al pagamento delle spese in caso di soccombenza (fortunatamente annullate dal successo in appello) e compensazione in caso di successo, CPS promuove un giudizio di ottemperanza (alla sentenza n° 3444/2018) di fronte alla VI sezione del Consiglio di Stato per elusione e/o violazione del giudicato determinata dal regolamento del nuovo albo dei fornitori.

Il Giudizio di Ottemperanza è un rito “breve“ previsto dal codice di procedura amministrativa che ha il fine costringere un’amministrazione resistente a rispettare un giudicato.

Esso prevede finanche la nomina di un commissario (commissario ad acta) che può assumere i poteri necessari ad eseguire una sentenza all’interno dell’amministrazione resistente.

Tuttavia, tale giudizio può attivarsi solo in relazione alle aperte e dirette violazioni/elusioni del giudicato e non in relazione a nuove illegittimità o ad illegittimità non esplicitamente censurate da un precedente giudizio.

Dunque, prima che si svolgesse l’udienza di merito del ricorso per ottemperanza, Poste Italiane, per non incorrere in spiacevoli conseguenze, ha dovuto necessariamente ripristinare la soglia di qualificazione della classe “Applicazioni di Logistica e Postali” al valore di 3 milioni ma non ha corretto alcuna delle nuove paesi ulteriori palesi illegittimità, quali quella relativa alle limitazioni poste in tema di avvalimento.

In conseguenza di tale correzione, la sentenza relativa al ricorso per ottemperanza (n° 8612/2019) ha dichiarato l’improcedibilità dello stesso per intervenuta carenza di interesse in relazione al motivo principale (il valore della soglia di qualificazione), in quanto l’amministrazione si era già corretta, e l’inammissibilità degli altri motivi (avvalimento e soglia per le mandanti) in quanto non erano state oggetto del giudizio originario, dichiarando la propria incompetenza, in assenza di un giudizio di merito di primo grado, e indicando la possibilità di una eventuale previa riassunzione del giudizio di fronte al TAR del Lazio.

Inevitabilmente, essendosi quest’ultimo giudizio concluso con una parziale improcedibilità e una parziale inammissibilità per difetto di competenza, non abbiamo avuto ragione, ma nemmeno torto, in tema di spese.

Ovviamente, a distanza di circa 3 anni dall’instaurazione del contenzioso originario, abbiamo promosso anche la riassunzione di fronte al TAR per la valutazione dei “nuovi” profili di illegittimità e, ad oggi, attendiamo la fissazione dell’udienza di merito.

A margine di quanto illustrato, debbo necessariamente stigmatizzare il fatto che, durante tutto l’iter dei processi amministrativi relativi al vecchio albo, che di fatto hanno previsto il reintegro in Albo della CPS fin dall’ordinanza di secondo grado, anche a seguito della definitiva sentenza favorevole del Consiglio di Stato, Poste Italiane non ha mai ripristinato l’operatività della CPS sul portale dell’albo dei fornitori.

Essendo le procedure selettive tutte esclusivamente telematiche ciò continuava dunque, in barba alle pronunce favorevoli, a determinare, di fatto, l’impossibilità della CPS di parteciparvi.

In questo caso reale, il contenzioso amministrativo, non solo non ha nulla a che vedere con la litigiosità dell’azienda né con disfunzioni, ambiguità o vuoti legislativi riferibili al Codice degli Appalti ma solo con la giusta rivendicazione da parte della ricorrente di un diritto pretensivo chiaramente scolpito nella normativa vigente.

Addirittura, il suo protrarsi nel tempo e le notevoli risorse ed energie pubbliche e private in esso profuse sono il risultato di un uso illegittimo – poiché riconosciuto dall’Autorità Giudiziaria come tale – da parte dell’amministrazione, della potestà discrezionale ad essa assegnata, il cui massimamente libero ed incondizionato esercizio pare che la stessa voglia continuare ad affermare, tanto da indurre i protagonisti a dubitare che la stessa voglia unicamente prevalere, indipendentemente dalle altrui (ivi compresa l’Autorità Giudiziaria) considerazioni sulla giustezza della propria posizione.

Il caso solleva molteplici interrogativi aprendo fronti di discussione molto ampi e dai tratti inquietanti.

Ad esempio:

  1. Come può una prestigiosa istituzione, che dovrebbe avere un sofisticato sistema di governance e disporre di approfondite competenze giuridiche, instaurare e coltivare contenziosi che assumono i contorni di confitti personali prefiggendosi obiettivi in aperto contrasto con le normative vigenti?
  2. Come è possibile che una prestigiosa istituzione, invece di instaurare un dialogo positivo e costruttivo con le altre istituzioni e, perché no, anche con i privati, alimentino o promuovano contenziosi sbagliati e costosi in difesa di posizioni illegittime?
  3. Com’è possibile che nessuna autorità di controllo o vigilanza, AGCM, ANAC o Corte dei Conti, intervenga con decisione al fine quanto meno di arginare questa atavica tendenza delle amministrazioni pubbliche italiane verso la limitazione della concorrenza e, più in generale, la chiusura del mercato?
  4. Perché il Codice di Procedura Amministrativa (e non il codice appalti che no c’entra nulla) impedisce alla massima corte di giustizia amministrativa, che si sia già espressa su una tematica ed un caso molto specifici, di censurare direttamente nuovi profili di illegittimità nell’ambito di un giudizio di ottemperanza laddove questi appaiano palesi?

Per capire perché il nostro paese non attrae investimenti stranieri in proporzione al suo potenziale, bisogna far riferimento a problemi rilevati in relazione a casi reali e non lasciarsi confondere, da proclami o slogan che spesso hanno oscure finalità.

Com’è comprensibile per un’istituzione che è anche una “banca della gente” e dello stato cui storicamente sono riferiti un gran numero di servizi al cittadino nonché il servizio postale, Poste Italiane investe molto nella propria reputazione, della quale, in tanti anni di collaborazione, non avevo avuto particolare ragione di dubitare.

In conclusione, spero che quanto illustrato, e quanto diremo ancora nei successivi post, contribuisca a diffondere una maggiore consapevolezza della falsità di taluni argomenti che caratterizzano il dibattito sul Codice degli Appalti e sul contenzioso amministrativo, affinché ci si possa concentrare sui reali, gravi problemi che affliggono il nostro paese e le sue amministrazioni.

Primo fra tutti, la tendenza ad ignorare impunemente disposizioni normative piegandole ad opachi interessi lobbistici, di gruppo e/o di fazione.

Nel prossimo post vi racconterò di una specifica procedura di gara nell’ambito della quale la stessa stazione appaltante è intervenuta in difesa di illeciti commessi dall’aggiudicatario e di illegittimità ascrivibili al RUP e alla commissione di gara.

Raffaello Leti Messina

12/04/2020

 

1 Comments

  1. Con sentenza n° 290 del 8 gennaio 2021 il Consiglio di Stato Sez. V ha dichiarato la nullità della prescrizione del Regolamento dell’Albo dei Fornitori di Poste Italiane che limita il ricorso all’istituto dell’avvalimento ai soli casi infragruppo indicando testualmente che:
    “L’Operatore Economico, singolo o consorziato, come indicato al paragrafo “SOGGETTI AMMESSI” del Disciplinare, può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti inerenti alle capacità economiche e finanziarie o alle capacità tecniche e professionali, avvalendosi della capacità di un altro soggetto, purché appartenente allo stesso gruppo societario della società avvalente”.
    Il Consiglio di Stato chiarisce che:
    Deve quindi ritenersi che – “al cospetto della nullità della clausola escludente contra legem del bando di gara – non vi sia l’onere per l’impresa di proporre alcun ricorso: tale clausola – in quanto inefficace e improduttiva di effetti – si deve intendere come ‘non apposta’, a tutti gli effetti di legge”, con la conseguenza, in ordine all’odierno gravame, che il ricorso proposto in primo grado da Vigipol doveva ritenersi tempestivo.
    Questa, che è certamente una buona notizia, ne cela un’altra inquietante.
    Infatti, la sentenza del Consiglio di Stato interviene in riforma di una sentenza del TAR del Lazio Sez. III (9585/2020) che, ancora una volta, erroneamente, aveva dichiarato il ricorso irricevibile per tardività, sostenendo che la società ricorrente avrebbe dovuto impugnare la modifica al regolamento del sistemma di qualificazione (intervenuta ben prima) anziché la sua mancata qualificazione.
    Come è possibile che il Tribunale Amministrativo del Lazio, dopo vari anni, commetta lo stesso identico errore, già corretto dal Consiglio di Stato?
    Com’è possibile che un Magistrato Amministrativo non capisca che una prescrizione di un Sistema di Qualificazione non può intendersi immediatamente lesiva dell’interesse di un operatore economico in assenza di una procedura di gara?
    Com’è possibile che, in sostanza, il TAR Lazio consideri gli operatori economici onerati di impugnare entro il termine di 30 gg. dalla loro pubblicazione tutte le prescrizioni di ogni eventuale Albo dei Fornitori che possano rivelarsi per loro potenzialmente lesive ai fini di una eventuale partecipazione a future procedure di gara?
    E ancora, com’è possibile che i Magistrati del TAR del Lazio non sappiano che una disposizione che limita l’Avvalimento ai soli casi infragruppo (quando il codice degli appalti – Art. 89 – parla chiaramente di “prescindere dalla natura giuridica dei legami” tra gli operatori) è chiaramente contra legem e che, quindi, inn relazione alla stessa non si pone alcun problema di termine di impugnazione?
    Mi sembra che abbiamo più di qualche problema…

leave a comment to Raffaello Leti Messina Cancel Reply

Make sure you enter the (*) required information where indicated. HTML code is not allowed.